scena crimineC’è Carobbio nel titolo, ma forse sarebbe più giusto dire “i Carobbio”, perché Filippo Carobbio in fondo è solo l’emblema della genìa di pentiti cui sembra sia affidata la sorte dell’inchiesta del calcioscommesse (ma è solo l’ultima della serie, l’espediente è stato utilizzato anche al di fuori del contesto calcistico, per fatti e problemi molto più tragici che hanno colpito la società civile). Ne è il simbolo perché il suo pentimento ha colpito il bersaglio grosso, l’allenatore poi, cioè ora, divenuto campione d’Italia e che, comunque, ai tempi delle sue rivelazioni, era già la guida tecnica di un top club, quindi sotto la piena luce dei riflettori.
Per il presunto ‘pentito’ del titolo il contenuto della sua confessione non aveva grossa pregnanza emotiva; il suo rapporto con Conte, a voler star larghi, doveva essere, ben che vada, neutro: con il tecnico salentino, in controtendenza rispetto alle stagioni precedenti, era stato impiegato solo in 25 gare di campionato su 42, solo 16 per intero con 6 subentri e 3 sostituzioni.
E ai fini della sua strategia difensiva le sue ‘ammissioni’ non potevano che apportargli vantaggi: a quelli ‘normali’ che gli inquirenti sventolano per incoraggiare gli indagati a collaborare, far catapultare il mostro Conte in prima pagina conferiva al collaborante una speciale aureola di santità, per la serie “ecco fin dove era arrivato il marcio, altro che un Bertani qualsiasi” (e poi la livrea zebrata, inutile che gli addetti ai lavori si ostinino a negarlo, avrebbe aggiunto marcio al marcio, lustrini ai lustrini, indipendentemente che nella questione la Juve come club c’entri come i cavoli a merenda).
Inoltre c’era il problema di avere lo sconto: il deferimento sportivo vede il centrocampista ex Siena imputato ai sensi dell’art. 9 (associazione finalizzata alla commissione di illeciti), pena prevista la radiazione. Ma Carobbio, come l’intervista a Mensurati su ‘La Repubblica’ ha svelato al mondo, spera di scamparla, di poter restare/tornare “nel mondo del calcio, magari insegnare ai bambini a giocare”: un messaggio abbastanza chiaro, come quello di Zaccone quando chiese una pena congrua; quella volta era assurdamente incongrua per eccesso, in questo caso lo è per difetto; d’altronde Platini, a meno che non lo si voglia usare solo quando conviene, è stato chiaro: ‘Chi viene preso con le mani nella marmellata, fuori dal calcio, per sempre!’ Ma certo l’aver consegnato la testa di Conte su un piatto d’oro agli inquirenti può avere il suo valore.
Ma in cosa consiste il piatto d’oro? Nessuna prova, solo la (presunta) credibilità di un reo confesso. Perché lo si presume credibile? Perché alcune sue ammissioni concordano con quelle dell’altro superpentito Carlo Gervasoni. La cosa, quand'anche potrebbe avere un minimo di valenza, seppur solo a livello di indizio (sempre tenuto conto della personalità dei dichiaranti) nel caso in cui l’argomento delle versioni concordi è lo stesso, non può di per ciò stesso dare la lucentezza dell’oro zecchino a qualsiasi affermazione del pentito; semmai gli darebbe una tale sicumera da farlo sentire al riparo da contestazioni, qualunque cosa dica. Un riscontro ci deve sempre essere, al di là della favoletta che nella giustizia sportiva l’onere della prova tocchi all’accusato: può valere solo nel caso che lo status di accusato gli derivi da precisi riscontri nella realtà e non da racconti di presunti pentiti.
Bisogna insistere sull’aggettivo presunti, affiancato a pentiti, perché la domanda fondamentale che ronza nella testa ogniqualvolta si parla di personaggi siffatti è: ma di cosa si son pentiti? Se fossero pentiti di aver fatto il male, se cioè avessero confessato spinti da un sincero sentimento di contrizione e di rimorso, tali parole intrise di un’amara verità sarebbero dovute arrivare spontaneamente, non dopo essere incappati nelle maglie della giustizia (penale e sportiva) e dopo aver valutato le pesanti sanzioni cui vanno incontro.
La tempistica del pentimento fa invece comprendere che il pentimento concerne, più dei fatti in sé, le conseguenze cui tali fatti conducono: trattasi dunque, da parte di questi soggetti, non di pentimento, che è un sentimento spontaneo dell’animo umano, che non chiede ricompense, ma anzi volge all’espiazione, ma di un profondo rammarico e disappunto per ciò che li attende, la prospettiva della radiazione sul piano sportivo e di guai seri dal lato penale. E serve un ultimo dribbling.
E allora: muoia Sansone con tutti i Filistei!

 

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