30Non sottovalutate questo scudetto. Detta così sembra un’ovvietà, un’irridente tautologia per chi ha dovuto attendere sei anni prima di tornare a fregarsi le mani all’ombra del tricolore. Tuttavia ci sono ragioni che vanno al di là dell’impatto affettivo, dei freddi numeri e delle statistiche, del trenta e del ventotto.
Certo, nessuno può negare che questo sia lo scudetto dei record, dell’improbabile e dell’inatteso: 38 giornate di imbattibilità in questo calcio ipervelocizzato (i 50 gol di Messi, i 100 punti del Real, il City campione nello stesso modo in cui lo United vinse una Coppa) sono la sezione aurea di un campionato, il frattale meraviglioso e apparentemente impossibile. Meno stupore, ma tanta sostanza anche per la difesa meno battuta nei tornei a venti squadre (20 reti incassate, di cui solo 8 in trasferta), per le 700 presenze di Del Piero, per l’aver subito più di un gol in due sole circostanze (Genoa e Napoli), per il torneo perfetto di Andrea Barzagli mai sotto la sufficienza, per i 20+1(Amauri) uomini in rete, per l’aver vinto con ben 15 pareggi e aver portato un solo attaccante alla (minima) doppia cifra (Matri), per Andrea Pirlo già leggenda bianconera dopo una sola stagione.
Scudetto da primato quindi. Non solo numeri e cervello, ma anche cuore (scene di delirio mai viste, dall’Indonesia all’Albania, dalla festa in campo a quella per le strade di Torino) e tanto fegato. Quello degli altri, dei livorosi, dell’odio sistemico e del paragiornalismo bifronte, baionetta in mano da una parte, braghe calate dall’altra. Basta guardarsi indietro: è stato l’anno delle sentenze di Napoli, dell’acciaio scadente e dell’inossidabile Guariniello, delle paranoie al primo favore arbitrale (rigore ininfluente contro il Cesena), del Milan con più qualità, dei patetici tentativi di coinvolgimento nel giro scommesse, del tormentone Muntari, delle discussioni – preventive e gratuite – sulla terza stella e sull’addio di Del Piero.
A ogni successo una polemica, a ogni passo avanti una malignità. Per noi un’ascesa alle vette del sublime, fino al plateau pre-scudetto e all’esplosione finale, per gli altri una via crucis in trentotto stazioni, disseminata di spine e dolori e alleviata solo dalla magrissima e terminale illusione di poter rovinare il percorso netto di una Juve mai così fiera della sua gobba.
In tv, il giorno della consegna dello scudetto, è stata una corsa all’armamento, all’accaparrarsi l’ospite giusto. Angeli con le trombe e arcangeli coi tromboni: Zeman a 90° minuto, Civoli-Ferrari-Boniek-Nicchi alla DS, Crosetti su Sky, Cruciani-Liguori-Abatantuono a Controcampo e la catilinaria a sorpresa di Travaglio (uno che caldeggiava il ritorno di Cobolli) nel pomeriggio di Quelli che il calcio. Che cosa vuoi di più dalla vita? Un ospite juventino (vero), magari. Riassunto della serata: lacrimoni per gli addii di Inzaghi, Gattuso e compagnia milanellistica, il futuro di Stramaccioni, venti minuti di intervista a Galliani, un po’ di Roma e Lazio, la Formula1 e, in conclusione, in orario semi-marzulliano un breve accenno al pullman bianconero con 450mila persone ad attenderlo in centro città.
E’ la Juve, baby. Una singolarità quantistica, un buco nero che inghiotte tutto e ridefinisce leggi e strategie. Guardate la povera Gazzetta, costretta a glorificare la propria nemesi, con la pena aggiuntiva del pubblicare un libro celebrativo sul quale non può scrivere ventotto e non vuol metter trenta. In copertina, alla fine, uno scudetto senza numero. Come un letto senza cuscino, un delitto senza maggiordomo.
A prima vista, quindi, che cosa è cambiato? Nulla. Rumore dei nemici e odore di napalm. Così era prima e così è ora. Ma, se osservate bene, vi accorgete che una cosa, un valore sottile e decisivo, è stato alterato: siamo cambiati noi, noi tifosi. Passato indenne attraverso il massacro del 2006 e gli anni della malagestione, lo juventino si è fatto smaliziato, più consapevole, meno teledipendente e, soprattutto, ha scoperto – o sviluppato – una qualità che raramente si era vista prima da quelle parti: l’autoironia. Fuori dal campo da gioco, su internet, nei bar e nelle piazze tutta la stagione è stata un giocarsi addosso, un prendersi in giro con gli stessi clichés che da anni alimentano il delirante universo antijuventino: arbitri, sudditanze, schede svizzere, processi, doping, settimi posti, sentenze, poca qualità, parrucchini, ecc… Il tutto, miscelato al provvidenziale “Gol di Muntari” (vero e proprio MacGuffin della stagione, per dirla alla Hitchcock), si è trasformato in un irresistibile bombone esplosivo.
Nonostante la tensione per un trionfo che sembrava non arrivare mai, il tifoso gobbo, per la prima volta, ha imparato a gestire la sua passionalità e ha fatto a pezzi il vittimismo residuo, in favore di una visione più saggia e meno masochisticamente esclusiva dell’atto sportivo.
Su forum e social networks è stato un florilegio di battute, di vignette dissacranti e autoreferenziali, di schiaffi del soldato autoinflitti, di goliardate mai viste in un popolo storicamente più abituato alla riservatezza e alla misura.
E alla fine, in maniera più lenta ma più incisiva, insieme a noi è cambiato anche lo sfondo, insieme agli attori è mutato anche il palcoscenico. Questo scudetto infatti, se non causa, è simbolo perfetto di una metamorfosi graduale ma implacabile: ciò a cui stiamo assistendo è il canto del cigno della tirannia di certe categorie giornalistico-televisive, la fine dell’intoccabilità dell’editorialismo da sigaro in bocca, nonché della tv generalista, mitofaga e sorniona. Il pensiero unico finalmente si deforma e si tentacolarizza in mille entità diverse, certi meccanismi crollano e si instaurano nuove linee di demarcazione. E’ stato quindi lo scudetto di Facebook e Twitter, degli internauti, dei canali tematici e dei blog, dei video amatoriali, dei gol ripresi dalle curve, dei montaggi fatti in casa e, almeno per quanto ci riguarda, della ritrovata passione vis-a-vis e di nuove forme di contatto tra idoli (i calciatori) e idolatri (i tifosi). E testimone ne siano i diciotto sold-out stagionali nel nuovo stadio, il delirio dei tifosi agli allenamenti e l’orda tolkeniana che ha avvolto la corriera festante per le strade di Torino.
Lo scenario è diverso e in continuo assestamento. Non rimane che proseguire su questa strada e, alla Società Juventus, oltre che un fattibilissimo miglioramento tecnico (vista anche la penuria di risorse e di idee delle concorrenti), auguriamo una nuova presa di coscienza: il rapporto con il tifoso è cambiato, il rapporto (soprattutto) con l’informazione sta cambiando. Ci sarà modo di parlarne. Forza Juve, tre stelle indicano il cammino..

 

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