AbeteUno nella vita decide di fare il camorrista. Poi un giorno si pente. Poi un altro giorno parla, dice delle cose. Vere, false, comunque da verificare. Accuse gravi, di fronte alle quali porsi almeno il dubbio. Accusa un giocatore della Nazionale, uno dei più in vista. Nulla di rilevante a livello sportivo, e forse nemmeno a livello penale. Ma comunque un’accusa infamante, che ne sporca gravemente l’immagine. La sua e quella della Nazionale. Al calciatore basta dire “Non è vero” per essere creduto. Subito, totalmente, pienamente. Gli crede l’allenatore, gli crede il Presidente. E’ fortunato, il calciatore. E’ fortunato perché è forte, fa il centravanti, e altri forti come lui in attacco non ce ne sono. Non gioca terzino sinistro, ruolo marginale e con maggiori possibilità di ricambio che non pregiudichino la qualità complessiva. Anche il terzino sinistro gridò che non era vero, ma non venne creduto. Venne cacciato.
E’ fortunato anche per un altro motivo. L’attaccante è italiano, italianissimo, ma ha la pelle scura. E’ un calciatore tanto forte quanto sfrontato, irritante, provocatore, talvolta maleducato. Scontroso, segna e non esulta, sembra ce l’abbia sempre col mondo intero. Sembra che sia lì quasi controvoglia. Ne ha combinate tante. Una volta, in origine, era detestato da una sola tifoseria, poi man mano è riuscito ad attirarsi antipatie quasi generalizzate. Quando la sua tracotanza si mescola alla stupidità del tifoso medio spesso ne escono insulti a sfondo razziale. Ho sempre pensato che il razzismo sia una cosa seria, e che non conosca eccezioni: un razzista odia i neri, tutti i neri, per il solo e unico fatto che siano neri. Li odia tutti, anche quelli che giocano per la sua squadra, anche quelli che giocano per squadre avversarie ma non sono né così forti né così insopportabili. Se però su cento giocatori di colore i versi della scimmia se li prendono solo in cinque o sei, forse non vale la pena scomodare un concetto complicato come il razzismo. La stupidità e l’ignoranza bastano e avanzano. Ma questo fa gioco al calciatore, gli crea una specie di salvacondotto. Lui è bravissimo a fare la vittima, gioca di sponda con l’ipocrisia e la superficialità di chi il calcio lo racconta e sempre più spesso cala il jolly del razzismo con estrema furbizia.

Succede così che il calciatore abbia tutte le carte in regola per vincere la partita col pentito senza nemmeno iniziare a giocarla: è fortissimo e indispensabile, è vittima di un presunto razzismo, gioca per una squadra mediamente coccolata e ben voluta. Una cosa però la sua vicenda, paragonata a quella del terzino, la rivela a chi ancora faceva finta di non averlo capito: il tanto decantato codice etico della Nazionale italiana è la più grande pagliacciata ipocrita, perbenista e finto buonista che sia mai stata partorita.

Anche il presidente della FIGC si è schierato in difesa di Mario Balotelli, accusato da un pentito di aver spacciato per scherzo degli stupefacenti. Giancarlo Abete, però, ha utilizzato parole più dure rispetto a quelle proferite dal commissario tecnico della Nazionale, il quale ieri ha dichiarato: «Se me lo immagino a distribuire droga anche per scherzo? Assolutamente no, Mario ha detto subito di non aver commesso questa cosa». Abete, invece, ha rincarato la dose: «Noi crediamo a Balotelli. Se bastano le parole di un pentito per essere sbattuti in prima pagina, allora dico: Povera Italia».



Credono a Balotelli ma non hanno creduto a Criscito. Hanno creduto a Carobbio, ma non a Conte. Fiducia a scatola chiusa in chi si è venduto le partite per anni, nemmeno il beneficio del dubbio per Armando De Rosa, un ex delinquente di serie B. Ma più che gli accusatori, evidentemente, a fare da discriminante erano e sono gli accusati. Sì, ha ragione Abete: povera Italia.

 


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